Scarafaggi palestinesi, perché non sparite dalla faccia della Terra? Tombola: è un sondaggio, oggi, a confermare che la stragrande maggioranza degli israeliani vorrebbe cancellare gli arabi di Palestina, deportando quelli di Gaza e cacciando pure gli abitanti della Cisgiordania. Elevatissima anche la percentuale di pericolosi fanatici: un israeliano su due, addirittura, afferma di approvare il genocidio in corso nella Striscia, dove i primi a morire sono i bambini.
A confermarlo è la drammatica rilevazione della Pennsylvania State University, rilanciata a gran voce dal quotidiano israeliano “Haaretz”, storico giornale progressista. Un prezioso organo di stampa indipendente, che “l’unica democrazia del Medio Oriente” sta ora cercando di far chiudere: il governo di Tel Aviv ha persino vietato a ogni funzionario pubblico di parlare con i reporter del quotidiano, sperando che “Haaretz”, già privato di inserzioni pubblicitarie statali, venga percepito come una fonte riprovevole, reietta e inattendibile.
Se non altro, le orrende notizie sul “sentiment” dell’israeliano medio sgombrano il campo da una clamorosa ipocrisia: quella di chi attribuisce la catastrofe umanitaria al solo Netanyahu, quando invece il dilagante odio anti-palestinese è un prodotto sapientemente costruito: gli accademici della Pennsylvania parlano di una radicalizzazione «coltivata da decenni».
Secondo studiosi come Shay Hazkani (Università del Maryland) e Tamir Sorek (Penn State University), citati da “Middle East Eye”, il sostegno massiccio a misure estreme non può essere attribuito solo al trauma del 7 ottobre 2023, cioè l’orribile strage di civili servita da pretesto per annientare Gaza.
Sul bilancio dell’infame “impresa” di Hamas, peraltro, gravano ombre pesantissime. Intanto, la frontiera: il confine più impenetrabile al mondo venne lasciato improvvisamente sguarnito dalle forze armate israeliane. A quel punto, valicarlo e catturare inermi ostaggi dev’esser stato un gioco da ragazzi. Poi c’è l’imbarazzante “direttiva Annibale”, che impone ai soldati israeliani di fare terra bruciata, sparando anche sui civili, pur di colpire gli eventuali terroristi. Molti osservatori sul terreno hanno espresso il fondato sospetto che il maggior numero di vittime, il 7 ottobre, sia stato causato proprio da Israele: troppe case rase al suolo, seppellendo i loro abitanti. Abitazioni palesemente distrutte dalle armi pesanti dell’esercito, elicotteri e carri armati.
«Il massacro – scrivono Hazkani e Sorek – ha semplicemente scatenato demoni coltivati per decenni attraverso i media, il sistema giudiziario e l’istruzione».
Imporre alla popolazione israeliana il negazionismo anti-palestinese è stato piuttosto facile, probabilmente, grazie anche all’altra storiella che viene immancabilmente raccontata: secondo la vulgata tuttora corrente, infatti, Israele è lì perché così hanno voluto le Nazioni Unite, spartendo la Palestina in due distinte entità. Mentre gli arabi, ignoranti e malvagi, non accettarono la suddivisione delle terre, i sionisti – buoni e intelligenti – si adeguarono in modo disciplinato alle insindacabili disposizioni dell’Onu.
Non è andata così, ovviamente. I primi a saperlo sono i maggiori giuristi internazionali, spesso ebrei e comunque filo-israeliani. Lo ammettono: la Risoluzione 181 del 27 novembre 1947, che proponeva la spartizione in due del territorio palestinese, non poteva in nessun modo rappresentare una deliberazione internazionale definitiva. Era solo una “raccomandazione”: infatti, è unicamente il Consiglio di Sicurezza dell’Onu a poter stabilire nuovi confini tra gli Stati.
Recentemente, lo ha ricordato un analista italiano come Massimo Mazzucco. «Di fronte a una “raccomandazione” dell’Onu, a livello internazionale funziona così: se ambedue le parti concordano, allora si incontrano, firmano un trattato bilaterale e ne informano le Nazioni Unite; a quel punto, l’accordo diventa legge internazionale. Se invece le parti non si accordano, la proposta cade nel nulla».
Israele, aggiunge Mazzucco, nel 1947 accettò unilateralmente la proposta dell’Onu, dichiarando – sempre in modo unilaterale – la nascita dello Stato ebraico, infischiandosene del fatto che i palestinesi non fossero d’accordo.
«Tecnicamente, quindi, da quel giorno Israele esiste “de facto”, non “de jure”: legalmente, lo Stato ebraico è nato senza una valida base giuridica internazionale, anche se poi è stato riconosciuto dalla maggior parte delle nazioni».
Afferma il professor Eugene Kontorovich, ebreo, docente di legge alla Northwestern University di Chicago: «Il fatto che l’Assemblea Generale abbia “raccomandato” la spartizione del Mandato di Palestina non cambia i fatti, perché quella era solo una “raccomandazione”: l’Assemblea Generale dell’Onu non ha l’autorità per cambiare i confini dei paesi, stabilire leggi internazionali o fare nient’altro di sostanziale».
Gli fa eco Howard Grief, avvocato internazionale, noto per aver scritto diversi libri sullo stato giuridico di Israele: «È una leggenda diffusa, senza alcun riscontro di verità, che le fondamenta legali di Israele siano basate sulla risoluzione di ripartizione dell’Onu del 29 novembre 1947».
Tra gli avvocati pro-Israele, il più famoso al mondo è forse Jacques Gauthier: ha scritto un libro di duemila pagine sullo status giuridico di Gerusalemme. «In termini generali, secondo la legge internazionale, le risoluzioni dell’Assemblea Generale non sono vincolanti», ribadisce. «Se gli ebrei e gli arabi si fossero accordati per firmare un trattato basato sui termini della risoluzione del 1947, allora sarebbero nati diritti e obblighi a livello di legge internazionale; ma questo non è successo», conclude Gauthier.
Sintetizzando: noi siamo il bene, loro sono il male. Se il lavaggio del cervello comincia dai banchi di scuola, poi non ci si può stupire del risultato. Certe immagini da Gaza, oggi, fanno inorridire il resto del mondo – ma non la maggior parte dei cittadini israeliani, a quanto pare: da un lato sono sottoposti alla concreta minaccia del terrorismo jihadista, e dall’altro risultano pesantemente manipolati dai loro governi.
Il sondaggio statunitense, realizzato a marzo 2025 su un campione di un migliaio di persone, è di una franchezza letteralmente imbarazzante. Otto israeliani su dieci approvano lo sfratto dei palestinesi da Gaza (e il 56% vorrebbe liberarsi anche dei palestinesi che vivono in Israele). Ma attenzione: uno su due, nientemeno, trova appropriato lo sterminio fisico della popolazione gazawi.
L’82% degli ebrei israeliani è favorevole alla deportazione dei palestinesi di Gaza, riporta “Haaretz”, citando la rilevazione demoscopica statunitense. L’indagine «mette in luce una crescente radicalizzazione dell’opinione pubblica israeliana nei confronti della popolazione palestinese, in un clima politico e sociale già fortemente teso a causa del massacro in corso nella Striscia».
E il guaio è che il 47% degli intervistati ha risposto affermativamente alla domanda se l’esercito israeliano, nel conquistare una città nemica, debba agire come gli Israeliti nella conquista biblica di Gerico, cioè “uccidendo tutti i suoi abitanti”. Il sondaggio ha inoltre mostrato che, purtroppo, «il sostegno all’espulsione dei palestinesi da Gaza non è limitato ai settori più religiosi della società israeliana». Circa il 70% degli ebrei laici – spesso considerati moderati o liberali – si dichiara infatti favorevole alla deportazione degli arabi (e tra i gruppi religiosi, tradizionalisti e ultra-ortodossi, il sostegno supera il 90%).
I dati del sondaggio, infine, evidenziano anche la forte influenza culturale dell’ambiente militare: «Solo il 9% degli uomini ebrei sotto i 40 anni – fascia che comprende la maggior parte dei soldati – si oppone in modo netto all’idea di deportare i gazawi».
Il mondo assiste con angoscia e impotenza al succedersi quotidiano delle stragi, nel silenzio scandaloso dei governi occidentali. Se fino all’altro ieri erano le potenze sunnite a contrapporsi a Israele – in testa Egitto, Giordania e Siria – sono poi stati gli sciiti ad assumere la leadership della “resistenza” anti-sionista: l’Iran ha coordinato i libanesi di Hezbollah, le milizie irachene, gli Houti yemeniti. Hamas? Assistita dal Qatar e aiutata sottobanco anche da Tel Aviv, per ammissione dello stesso Netanyahu.
La tragica verità – sottolinea Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e convinto sostenitore della nazione israeliana – è che la “causa palestinese” è stata impugnata dalle peggiori satrapie mediorientali per legittimare il loro potere tirannico. Poteri islamici che, per scopi inconfessabili, hanno spesso agito in combutta con i settori israeliani più reazionari: «Persino i servizi segreti dell’Iran hanno condotto operazioni coperte insieme agli 007 del Mossad».
L’accelerazione ora in corso è vistosa. Formalmente non ostacolato da Trump, l’impresentabile Netanyahu sta sterminando i palestinesi di Gaza dopo aver fatto assassinare i maggiori leader di Hamas, di Hezbollah e dello stesso Iran.
Come in ogni altra guerra, la prima vittima è sempre la verità. Di fatto, Tel Aviv ha messo al bando quella evidenziata dai suoi giovani storici, come Ilan Pappé e Schlomo Sand. Dopo aver ricordato che Israele non è nato dalla risoluzione Onu del ’47, ma dalla feroce pulizia etnica della Palestina, il professor Pappé è stato costretto a lasciare il paese.
Per il momento insegna ancora in patria il collega Sand, che in un libro ha evocato “l’invenzione del popolo ebraico”. Tuttavia, se solo si digita su Facebook il nome dello studioso, il post scompare in automatico.
Censura spietata. E perché mai soffocare il dissenso, se davvero si è dalla parte giusta?
A proposito di presunte invenzioni: una raffinata studiosa italiana come la cabalista Vittoria Molinari Fornari ricorda che i termini “ebreo” e “arabo” provengono dalla stessa radice proto-semitica da cui, spiegano i linguisti, sono nate tutte le lingue della regione mediorientale. Gli estensori biblici? Si esprimevano in aramaico. Domanda: è mai stato davvero parlato da qualcuno, l’ebraico antico con cui è stato scritto l’Antico Testamento, raccolta di testi dalla quale si pretende di fondare un particolare radicamento etno-geografico?
Oggi, nel bene e nel male, in Israele vivono quasi 10 milioni di abitanti: pretendere di non riconoscerli, e magari di sloggiarli, può essere solo il parto della mente di un folle. Per contro: mentre la metropoli palestinese è ormai ridotta a un cumulo di macerie, la Cisgiordania araba sta per scomparire dalla carta geografica, continuamente erosa dal colonialismo predatorio israeliano. Nei Territori Occupati, i palestinesi vivono nel terrore, tra mille vessazioni, sottoposti a un severissimo regime di apartheid. L’unico leader israeliano sincero con loro, Yitzhak Rabin, fu assassinato da un ultra-sionista. Se oggi nascesse un altro Rabin, quali terre potrebbe concedere ai palestinesi? Ormai, agli arabi non resta quasi più niente. Ha vinto la sopraffazione: la legge del più forte.
Secondo una certa interpretazione, può essere che tutto sia nato sostanzialmente deformando le iniziali aspirazioni di Theodor Herzl, il padre nobile del sionismo storico, desideroso di dare una terra al suo popolo ramingo e regolarmente perseguitato. Dopo la Dichiarazione Balfour del 1917, con la quale la Gran Bretagna assicurava a Lord Rothschild che avrebbe insediato un “focolare” ebraico in Palestina, si impose il brutale nazionalismo di David Ben Gurion.
Paolo Barnard, autore del bestseller “Perché ci odiano”, esibisce la spietatezza del fondatore di Israele: nei suoi diari prescriveva lo sterminio sistematico della popolazione dei villaggi palestinesi ostili ai sionisti e decisi a non cedere le loro terre. Tutto questo, ben prima dell’avvento di Hitler e delle sue infernali camere a gas.
Uno dei maggiori testimoni della Shoah, Primo Levi, non era amato dalle autorità di Tel Aviv: si era infatti permesso di condannare certe azioni stragistiche di Israele, come lo sterminio dei profughi palestinesi nei campi di Sabra e Chatila. “Se questo è un uomo”, libro-capolavoro del grande reduce di Auschwitz, era una lettura obbligatoria nelle scuole di tutto il mondo, tranne quelle di Israele. Obtorto collo, fu finalmente tradotto anche in ebraico solo quando, ormai negli anni ’80, il romanziere americano Philip Roth, ebreo, “scoprì” Primo Levi e lo presentò ai lettori statunitensi.
Era da poco uscito “Se non ora, quando?”, l’unico romanzo che Levi avesse mai scritto. Il libro celebra il diritto dei perseguitati alla legittima difesa: possono e devono farsi valere, nel caso, anche con le armi. A patto però di non venir mai meno alla loro umanità.
Nel lager – ci spiegò magistralmente Primo Levi – era possibile assistere a ogni genere di abominio. Sofferenze inflitte con la massima indifferenza, per un motivo preciso: le vittime non erano più esseri umani, agli occhi dei carnefici. Erano state declassate a “untermenschen”, ridotte al rango di sotto-uomini.
Ecco perché, oggi, c’è chi spara senza rimorsi sui bambini di Gaza. Il mostro si chiama propaganda, manipolazione, fanatismo. Un veleno mortale, spaventoso, dal quale nessun popolo può credersi immune.