LA SANTA RUSSOFOBIA, ORCHESTRATA DAI BUGIARDI

La guerra ha sempre torto. Della guerra, la prima vittima è la verità. Lo sappiamo da sempre, e amiamo ripetercelo: ma spesso in modo veramente ipocrita, verrebbe da dire. Perché – stando al nostro mainstream occidentale – c’è guerra e guerra, c’è imperialismo e imperialismo. Qualcuno è tollerabile, è in qualche modo autorizzato a uccidere innocenti, mentre altri imperialismi no, non possono uscire dal loro apartheid storico.

Caso classico, la Russia di Putin: contro la quale, all’indomani dell’invasione del Donbass, nel 2022 s’è scatenato l’Armageddon. Sanzioni su sanzioni, embargo del gas, isolamento internazionale (o meglio: isolamento da parte dell’Occidente, a fronte di una crescente solidarietà dal resto del mondo). Dilagante, in ogni caso, la parossistica isteria russofobica dei media e la loro grottesca demonizzazione del Cremlino.

Poteva, la Russia, evitare di invadere il Donbass? Avrebbe potuto intervenire in modo diverso, a tutela della popolazione russofona martoriata dallo squadrismo dei battaglioni neonazisti ucraini e dalla violentissima politica ultra-nazionalista di un energumeno come Poroshenko?

La domanda è legittima. E la risposta, a quanto pare, è: sì, certo, Putin avrebbe potuto (e dovuto) aggirare anche l’ultima gravissima provocazione, ovvero la beffa sugli Accordi di Minsk da parte di Zelensky, che li disattese il giorno dopo averli firmati avendo come padrini la Francia e la Germania.

Accordi, avrebbe poi ammesso la Merkel, che nei mesi precedenti erano stati utili solo a prendere tempo, consentendo a Kiev di armarsi. L’Ucraina infatti disponeva delle truppe necessarie a sterminare 14.000 propri concittadini “colpevoli” di essere russi, ma non poteva ancora permettersi un esercito in grado di provare a resistere, almeno per un po’, a quello di Mosca.

Qualsiasi giornalista sincero ammetterà che la sindrome dell’accerchiamento deve aver pesato molto sulla Federazione Russia, tradita dagli Usa che avevano promesso a Gorbaciov di non estendere la Nato verso est. In Italia lo hanno ricordato in pochi: Marco Travaglio, Michele Santoro, storici del calibro di Luciano Canfora e Alessandro Barbero, analisti geopolitici come Alessandro Orsini e Dario Fabbri. Mosche bianche, in un habitat informativo che a quanto pare resta allergico ai fatti, preferendo di gran lunga le narrazioni di comodo.

Fabbri, in particolare, mostra un approccio relativistico che può ricordare quello di Claude Lévy-Strauss: pur non amando per nulla il regime moscovita, lo studioso fa notare come siano i russi (che infatti votano in massa, democraticamente, per Putin) a non voler diventare occidentali come noi. Sono e restano diversi. Anche loro – come gli Usa, la Turchia, l’Iran – conservano una logica imperiale: il prestigio internazionale viene prima del benessere economico interno.

Lo ha spesso rimarcato anche Dmitrij Koreshkov, imprenditore russo residente in Italia e acuto osservatore dell’attualità: al loro leader potrebbero perdonare di tutto, i russi, tranne che una figuraccia sul piano militare.

L’istinto imperiale può dunque contribuire a spiegare la scelta del 2022: invadere il Donbass non serviva solo a proteggere la popolazione lungamente terrorizzata dalle milizie neonaziste e angariata dal governo di Kiev, che tra Donetsk e Lugansk era arrivato a togliere la pensione agli anziani e a minacciare di privare i bambini dell’accesso alla scuola. La cosiddetta “operazione militare speciale” serviva anche a mandare a quel paese l’Occidente dopo decenni di ricatti e provocazioni subite, riaffermando al tempo stesso la dimensione imperiale della Russia come potenza nucleare, per giunta reduce dalla guerra vittoriosa in Siria contro i tagliagole dell’Isis.

Che l’Onu condanni una formale violazione del diritto internazionale è persino ovvio. Che gli amanti della pace disapprovino la scelta di Putin è altrettanto scontato. Quello che stona, semmai, è che a farlo siano gli specialisti della guerra e della destabilizzazione globale, Usa e Gran Bretagna in primis, praticamente muti – oggi – di fronte allo spaventoso massacro della popolazione civile di Gaza.

L’asimmetria è a dir poco imbarazzante: si processa Putin per la sua guerra tra eserciti, oltretutto decisa in risposta agli attacchi altrui a due passi dalla frontiera (una guerra per giunta condotta lontano dalle città e cercando di minimizzare i danni collaterali), mentre si tace spudoratamente di fronte alla drammatica pulizia etnica realizzata con inaudita ferocia dalle inquietanti truppe di Netanyahu, che non esitano a fare strage di bambini.

E poi, seriamente: s’è mai vista nella storia una situazione nella quale la ragione stesse tutta da una parte sola? Persino il revanscismo tedesco dopo il Trattato di Versailles era perfettamente comprensibile, anche se non giustificabile, come fece osservare lo stesso Keynes. Nel caso dello scontro russo-ucraino, però, le suggestioni hitleriane vengono riciclate proprio da Kiev, dove si è giunti ad elevare al rango di eroe nazionale il criminale nazista Stepan Bandera, responsabile della morte di duecentomila ebrei.

Il filo nero che collega il neonazismo a certi apparati statunitensi – ha fatto notare Massimo Mazzucco – risale alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando migliaia di nazisti ripararono negli Usa per poi trovare un ruolo nella futura Cia.

Purtroppo, è sempre e solo il logoro antiamericanismo militante (dunque miope, o presbite) a ricordare le epiche “false flag” che permisero agli Stati Uniti di aggirare cinicamente la loro Costituzione, volendo entrare in guerra: l’auto-affondamento della corazzata Uss Maine nel porto dell’Avana per strappare Cuba alla Spagna, l’aver fatto colare a picco il Lusitania per poter esordire nella Grande Guerra, l’aver propiziato il disastro di Pearl Harbor come casus belli per intervenire nel secondo conflitto mondiale.

Ancora: l’inesistente attacco all’incrociatore Uss Maddox nel Golfo del Tonchino per poter aggredire il Vietnam del Nord, il verminoso “inside job” per abbattere le Torri Gemelle, la tragicomica “fialetta di antrace” maneggiata da Colin Powell per poter sterminare gli iracheni e devastare il Medio Oriente per decenni, creando il brodo di coltura entro il quale far crescere l’abominevole Isis.

Non si contano gli attentati sotto falsa bandiera, come quello costato la vita all’ambasciatore statunitense di Bengasi (che sapeva troppo, sulle prodezze inconfessabili di Hillary Clinton): l’affare delle “armi chimiche di Assad” per far capitolare la Siria, dopo aver trasformato in un incubo la Libia, una volta assassinato Gheddafi.

Ebbene: in tutto questo sterminato oceano di nefandezze, che ruolo può aver avuto Putin? Risposta facile: nessuno. Il “dittatore” russo stava semplicemente alla finestra. Si limitava a constatare, insieme al resto del mondo, di quali orrori fossero capaci i civilissimi esportatori di democrazia.

Esattamente da quel pulpito, ancora oggi, alcuni paesi del blocco occidentale – specie gli europei che contano: Regno Unito, Francia e Germania – continuano a comportarsi come se la storia fosse la fiaba di Cappuccetto Rosso: l’aggressore ha invaso l’aggredito.

Spiegava l’anziano Brzezinski: la leva ucraina è quella giusta, per destabilizzare la Russia. Le grandi manovre infatti iniziarono appena dopo l’indipendenza nazionale di Kiev, disciolta l’Unione Sovietica contro il volere della sua popolazione. Uno storico referendum del 1990 – ricorda Koreshkov – svelò che i russi chiedevano sì una maggiore trasparenza, ma senza rinunciare alla cornice dell’Urss.

Lo stesso Koreshkov, economista, sottolinea: nonostante un certo impegno da parte di Putin nel risollevare socialmente il paese, il tenore di vita medio dei russi non è ancora tornato al livello di benessere di cui godevano i sovietici alla fine degli anni ’80.

I media occidentali invece raccontavano che i poveri sudditi dell’Urss non vedevano l’ora di diventare come noi, ricchi e felici perché compiutamente democratici. L’ennesima fiaba del nostro mainstream serviva a incoraggiare la predazione della Russia da parte del capitale neoliberista d’oltreoceano, con l’inevitabile complicità degli oligarchi che sedevano alla corte di Boris Eltsin.

Gli analisti contemporanei raccontano di come Putin abbia trasformato la composizione della leadership russa: i nuovi grandi privilegiati della cerchia dello Zar, anch’essi ricchissimi, dovevano però attenersi alle nuove regole. Missione: dare una mano alla popolazione e recuperare la perduta dignità nazionale. Anche con le armi, nel caso. Accadde nel 2008, quando l’esercito russo intervenne nell’Ossezia del Sud, regione caucasica filorussa che si era ribellata alla svolta atlantista della Georgia, ispirata da Bush. Per inciso: i georgiani avevano bombardato Tskhinvali, la capitale ossetina, facendo strage di civili. Quella fu la prima volta in cui l’Orso Russo si spinse fuori dai suoi confini.

A stanarlo definitivamente provvide il golpe di Maidan a Kiev, quando misteriosi cecchini aprirono il fuoco sulla polizia ucraina. Il governo legittimo, guidato da Viktor Yanukovich (non ostile a Mosca) aveva appena rifiutato “l’aiuto” del Fondo Monetario Internazionale, perché avrebbe necessariamente comportato il taglio della spesa sociale, cosa che avrebbe gettato sul lastrico milioni di ucraini. Dunque, Yanukovich andava sloggiato con le maniere forti.

A gestire la rivoluzione colorata provvide la neocon Victoria Nuland, in collaborazione con l’ambasciata statunitense di Kiev. Obiettivo: trasformare l’Ucraina in un ariete da usare contro la Russia, fino al ventilato ingresso nella Nato. Motivo: specie dopo l’operazione antiterrorismo in Siria, era diventato chiaro che Putin non avrebbe mai accettato di vedere il suo paese trasformato in docile colonia occidentale.

Di fronte alle verità, specie le più scomode, si impongono le retoriche e le propagande. Dietro gli opposti bellicismi si nascondono lauti profitti: lo scontro armato conviene a tanti. Alcuni acerrimi nemici potrebbero rivelarsi alleati insospettabili. Non convince neppure la strana guerra al rallentatore condotta dai russi, come a rivelare l’esistenza di una trattativa permanente, tenuta segreta, con chissà quali e quanti attori, sul futuro assetto della regione.

Nel frattempo, non è difficile individuare il peggiore in campo: trattasi del mainstream occidentale, magico-favolistico. I nostri media, infatti, sono giunti a criminalizzare persino Dostoevskij, dopo aver raccontato che non c’era cura che potesse arrestare il micidiale virus scatenato in Cina dall’amore proibito tra un pipistrello e un pangolino.

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